mercoledì 6 febbraio 2013

La pista ciclabile - Tracce del passato

Oggi è una pista ciclabile, ma in passato è stata una linea ferroviaria di indubbio fascino.


BINARI SCONOSCIUTI Una storia della Valle

pubblicata da Doro Balkan su Facebook il giorno Mercoledì 6 febbraio 2013 

E’ la nitida mattina del 31 dicembre 1958, un san Silvestro come tanti; verso l’altipiano altissime nuvole striate giacciono in attesa.
In città sono già iniziate le grandi manovre del cenone: scampoli di benessere hanno fatto tornar pian piano il sorriso ai triestini e negli empori alimentari c’è la fila; fila anche agli sportelli per saldare le ultime scadenze, tram e filovie gremiti, sui marciapiedi gli auguri di rito, l’usata speranza che l’anno da venire sia migliore.
Una bella giornata, neppure fredda se non fosse per qualche raffica che t’abbraccia agli angoli inattesa, s’insinua birichina tra i cappotti, fa ondeggiare all’incrocio la “600”. Spruzzi d’acqua salata hanno bagnato a chiazze il selciato in riva alla “sacheta”: di fronte c’è la vecchia stazione di Campo Marzio, il prestigioso capolinea di levante… La “Transalpina”, la “Parenzana”, l’”Istriana”, cocchieri in attesa un tempo sul piazzale, cavalloni di ghiaccio accovacciati tra le bitte, la “lanterna” che vegliava sulla notte del golfo… Poi la guerra si mangiò la grande tettoia di lamiera, ferro per le truppe, sulla carta delle venezie un tratto rosso recise le tre gloriose linee.
Oggi però c’è il sole: binario due, saran da poco passate le undici; la vaporiera già in pressione ansima aspettando un cenno.
Il profumo del mare d’inverno zigzaga misterioso tra i binari, si mischia agli sbuffi di vapore, arriva stordente e strano alle narici. Un riflesso particolare accende proprio oggi i graffiati e opachi finestrini del convoglio, una tinta cristallina azzurro tanzanite: forse il cielo, terso sopra al mare mosso o la luce radente del mattino.
Verso Sant’ Andrea una musica remota, un ritmo scandito da fiati e percussioni: una banda di rione, forse solo un impressione, una bugia… Un sibilo improvviso: la locomotiva si è mossa lentamente, le due carrozze dietro; sull’ultima c’è appeso un cartello giallo. “Trieste-Draga-Trieste”.
Un attimo e il trenino sparisce sbuffando oltre gli scambi del porto nuovo… San Giacomo, Sant’Anna, i ponti sopra i rii di Cattinara, San Giuseppe della Chiusa, Sant’Antonio-Moccò; San Silvestro del’58, un giorno feriale come tanti se non fosse l’ultimo giorno dell’anno e l’ultima corsa del trenino della Valle.
E’ormai quasi mezzogiorno, per essere inverno in città l’aria è quasi tiepida ma quaggiù, dai solitari varchi della Glinscica, dallo scivolo del rio Griza, dai ghiaiosi toboga di San Servolo la bora a tratti accelera, s’inalbera, precipita improvvisando piroette malandrine.
“Moccò, stazione di Moccò”; trentaquattro minuti esatti da campo Marzio, siamo in perfetto orario… Oggi però c’è troppo vento per arrampicare e poi non è stagione; una camminata forse, magari giù al Premuda o fin Botazzo, da Pepi e Maria che dall’altra estate inventano gnocchi e Malvasia. Ma l’ultimo dell’anno ci sono tante faccende da sbrigare: domani magari, se non si saran fatte ore assurde; la prossima settimana se il tempo tiene.
Domani, la prossima settimana, un altro giorno.
A Moccò non è sceso ne salito nessuno ma alla vaporiera non importa più di tanto, l’ultima corsa tra quelle pietre antiche forse è meglio farla da soli, così da sentir più forti i sussurri, i baci lievi della Valle.
Così è successo: dopo tanti anni di onorato servizio su quell’ardita tratta di salita le hanno tolto d’un tratto la fiducia, l’hanno voluta in pensione. Si, certo, la guerra e poi il confine l’avevano fermata a Draga tagliandole la strada per Erpelle e Pola, il motivo stesso del suo esistere; le toccava persino tornare in retromarcia. Poi c’erano gli alti costi di esercizio, la scarsità di passeggeri: le eran restati pochi, amati fedelissimi, gli affezionati escursionisti di certe domeniche d’autunno, i grottisti, i rocciatori che in fila indiana da Moccò costeggiavano i binari fino alle pareti. Poi qualcuno di Bagnoli e Draga, “lipe”di ragazzi finite all’ombra del Crinale, qualche innamorato.
Quei sedici chilometri di trenino sferragliante eran diventati il giocattolo di allegre gite festaiole, tascapani con mezze struze di salame e nella boraccia refosco, sacchi verdoni strapieni di scalette, canapi piombati, matasse di “manila” accatastate vicino al portellone, una chitarra… Si cantava “Stelutis” sotto la fioca luce del vagone, “Varda ‘sti Bruti” e poi le solite scabrose canzonacce di osteria, le risate zingare di un tempo… “E adesso che gavemo la strada ferata” e si arrivava veloci al mare, gli ultimi conciliaboli sulla riva nell’aria indecisa della sera.
L’avevan certamente amato come si può amare uno zaino scolorito, il fedele eskimo, il vecchio foulard avvolto tra i capelli.
Anche il Tram de Opcina dicevan che era inutile, che non conveniva più ma lui no, sempre là intoccabile: era stata un’ingiustizia… Era pur bello vedere quel piccolo convoglio macinar carbone tra spioventi terrazzi di calcare, sotto quelle rupi verticali di funanboli e di gufi, di piccoli assioli che a primavera gli facevano il verso.
C’eran anche i fruscii solitari, caprioli che al tramonto traversavano i binari, le tane soffianti della massicciata, pertugi di calcare, i segreti del monte Stena.
Nubi a fiocchi stavan appese appena oltre la galleria, talvolta la nebbia si posava repentina sui rari iris del ciglione od erano strati polverosi e candidi di neve ad adagiarsi petulanti tutto attorno al fumaiolo.
Il treno passa ora sotto il ponticello di arenaria presso Hrvati, eccolo imboccare rallentando la curva prima dei “Falchi”… Un attimo nel buio della “Rossa”, il rettilineo sospeso sugli “Altari”, la galleria della “Bianca”.
Le due carrozze sono quasi vuote: una coppia di Draga che torna con gli acquisti, un barbuto agricoltore di Grozzana, un pensionato triestino che ha saputo e ha portato una borsa di ricordi; poi c’è il consueto odore dei vagoni, quell’indefinibile miscuglio di legno, ferro, grasso e polveri antiche che ricorda improvviso i primi viaggi di bambino.
Ora nelle vetture è rotolato il silenzio delle rocce e dell’inverno, solo lo sbuffo intermittente della vecchia “476 FS” che sta nuovamente rallentando prima del casello: i due consueti fischi riecheggiano strani in quell’aria irreale da grandi occasioni; ancora un fischio, non è la norma, forse un saluto per il casellante, immobile come sempre sullo scalino della porta. Stasera al passaggio in retromarcia lei lo saluterà ancora… Lui darà allora un’occhiata allo stanzino, al tavolaccio con le carte, al piccolo albero addobbato con cura sopra la credenza, poi chiuderà le due mandate della robusta serrature e risalirà a San Lorenzo alla luce dell’acetilene in dotazione: calerà così il sipario, buon millenovecentocinquantanove, che vi porti la fortuna.
Improvvisamente da un frassino nudo arriva il verso della cincia: il treno, oramai sotto la “Grande”, è già sparito dallo sguardo, la sua voce si è fusa coi bisbigli del Rosandra, un suono sommesso, torrente e canto di sirena, zufolo di Pan. Dai finestrini socchiusi entrano soffiate di vapore, brevi momenti di tepore come di un’incipiente primavera, la sensazione precisa che il vento di nord est sia mutato in un lucido scirocco… Solamente la pressione della caldaia sotto sforzo, il sole ancora alto del primo pomeriggio.
L’odore buono di una pipa si è piacevolmente sparso tra le panche semivuote, il pensionato aggrappato al vetro di un mattino mai scordato vede chiaramente la pioggia lontana grondar su due sorrisi adolescenti, mano nella mano, di corsa tra i mulini, il lungo tronco steso sul fiume, il piccolo prato sotto il pastino nascosto, l’odore preciso della terra madida e di lei, della sua pelle.
Le rotte banconate spariscono a precipizio nella forra, sul ponte di Botazzo è ben visibile la bandiera tricolore; acre ancora il carbone che brucia.
La “Fessura del vento”, la “Grotta dei Pipistrelli”, poi le due carrozze entrano decise nella penultima galleria, quella dell’incidente agli operai, del profondissimo pozzo sopra il lago… Vecchie leggende della ferrovia, maschere di un’esistenza ormai corsara. Un grosso uccello rotea appena sopra, un corvo imperiale, forse solo una cornacchia, poi le ombre della pineta fingono la sera.
L’ultima, breve galleria; ecco: là oltre il bosco stan abbarbicate le rovine del castello. I graniciari slavi son sicuramente laggiù, mimetizzati chissà dove… Lungo il filo di quel crinale volpi e spettri, vipere, lucertole, sembianze evanescenti; appena più sotto, su declivi lastroni d’arenaria il Krvavi potok ruzzola selvaggio a cercar la Glinscica. Di colpo la trincea a chiudere la vista, un cippo bianco sulla cresta indica chiaramente la frontiera, una curva secca sulla linea di confine e appaiono i comignoli di Draga, la Valle è già sparita.
Venti minuti da Moccò, siamo in lecito ritardo.
Il vapore balla silenzioso ancora un poco nell’aria tersa di quel breve pomeriggio di Dicembre, carezza ancora quelle pareti create da antichi barramine; i binari luccicano un’altra volta contro l’ultimo sole dell’anno.
Appostata dietro le gallerie, sui rotti terrazzi, nei recessi delle rocce, la boscaglia, apparentemente addormentata, è pronta al grande assalto. Alberi, arbusti, roveti di mora nera e asparagi selvatici hanno atteso pazienti e radi per più di settant’anni aggrovigliati sui bianchi detriti della ferrovia: ora il momento è arrivato. Lo hanno capito da quel breve convoglio che oggi ha indugiato un po’di più su quei cinque magici chilometri, o per quel velo di fumo che non vuol saperne di svanire, o semplicemente per il consueto stantuffare inghiottito troppo presto dal silenzio.
E la Val Rosandra s’è fatta bella oggi, incredibilmente bella: distesa sul suo lattone di calcare, neghittosa primadonna, sente il trenino scorrere nel grembo… Un brivido, come la goccia di saliva che solca una pelle abbandonata, l’ultima carezza di un  perduto amante.
Poi, con il calare della sera, una tristezza riservata, dignitosa; su quel palcoscenico stregato l’aria si è nuovamente raffreddata, struggente e rarefatto scende da Occisla l’alito del buio.
Isolato dalla rupe un pino nero lancia veloce la sua ombra verso oriente, seducenti strie d’avorio graffiano lo spazio già incolore del tramonto, qualche minuto ancora e il sole annega in fondo alla città.
Un rombo, un attimo: due vagoni vuoti riportano laggiù una locomotiva.






Il ponte in via dell'Istria all'altezza dell'attuale Ospedale Infantile


Nel tratto sotto Cattinara


Sottopasso in via Doda


La stazione di Moccò

La Val Rosandra quando ancora passava il treno












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